Relativismo linguistico, tra schwa e etica

Il relativismo linguistico, lo schwa e l’etica.
– Riflessioni di Roberto Luigi Pagani su un tema oggi molto attuale e controverso
Mi piace usare questo spazio non soltanto per condividere informazioni sull’Islanda, ma anche per suscitare riflessioni. Come docente universitario diplomato anche in didattica universitaria, sono grande sostenitore del “discussion-based teaching”, e nelle mie lezioni ho sempre usato modalità interattive, dando informazioni volte a permettere agli studenti di arrivare alle conclusioni da soli tramite ragionamento autonomo sviluppato come dialogo tra loro e con me. Trovo che sia il modo migliore per il progresso personale e sociale, per questo cerco di riproporlo anche su questa pagina, anche se qui ho meno facoltà di tenere le redini del discorso e questo porta alcuni a partire per tangenti e scatenare liti che degenerano (in classe posso pretendere da uno studente che dimostri di aver fatto un ragionamento coerente, e se non ci riesce è obbligato a ritirare le sue conclusioni sbagliate e riprovare, senza potermi dire “non accetti le opinioni altrui”, “sei arrogante!”, “limitati a parlare di Islanda!” come alcuni fanno qui su Facebook.

Sono forse un’idealista, per cui continuo a provarci nonostante la frustrazione. Del resto dobbiamo tutti scegliere battaglie da combattere, c’è chi sceglie i diritti degli animali, chi quelli dei palestinesi, chi qualche credo religioso, chi diritti civili… io voglio battermi per diffondere la capacità di ragionare basandosi sui dati, sapendo selezionare le fonti, e al fine di capire meglio tramite il dialogo, non al fine di spazzare via l’avversario attraverso la retorica, anche se lui ha in realtà ragione, ma non si sa spiegare altrettanto bene.

– Mi sono già dilungato, ma dovevo fare questa premessa per introdurre il senso del discorso che volevo fare:
Da linguista storico, mi trovo sempre contrario a iniziative dall’alto volte a intervenire sull’assetto di una lingua. Non mi piace perché lo trovo antidemocratico anche quando il fine è nobile. Questo non significa che io sia contrario a qualsiasi iniziativa volta a incoraggiare certe forme linguistiche: per esempio, sono favorevolissimo a declinare al femminile i maschili in -o delle professioni (ministra, avvocata e sindaca), perché questa è iniziativa che rinforza e fa rispettare una norma grammaticale (quella per cui i maschili italiani in -o escono in -a quando si riferiscono a entità di sesso femminile). Chi si rifiuta di dire “ministra” sta esercitando una libertà che però è anche errore grammaticale, dal punto di vista delle regole attuali dell’italiano. Nulla vieta che se la maggioranza si metta a mascolinizzare tutto, l’italiano del futuro perda il femminile e abbia solo sostantivi senza genere grammaticale, come l’inglese, ma non ci siamo ancora, e ad oggi “la ministro o il ministro Meloni” sono sgrammaticati.

D’altro canto, sono fermamente contrario a una rivoluzione grammaticale come quella che vuole introdurre un genere diverso attraverso un’inserimento di un fonema non proprio del sistema italiano, lo sc[e]và (si pronuncia così, schwa, non “sciuà”. Oltre a non conformarsi con la grammatica storica e l’evoluzione naturale della lingua, la trovo un’iniziativa pericola dal punto di vista etico.

Essa prende le mosse da un assunto scientificamente non ben assodato nei suoi limiti e nelle sue implicazioni: che la lingua plasmi il modo di pensare. In linguistica lo si definisce relativismo linguistico, spesso chiamato anche ipotesi di Sapir-Whorf, dal nome di due studiosi americani (professore e allievo), che però in realtà non erano proprio persuasi da questa ipotesi, ma il loro nome vi è associato perché un altro allievo di Sapir, l’antropologo Hoijer, ha associato la teoria ai due, dopo che Whorf aveva pubblicato osservazioni dove sospettava che differenze linguistiche potessero avere conseguenze cognitive, senza però sostenere che fosse proprio così. È un’idea che era stata formulata già nell’Ottocento, e che, nella sua forma più estrema (il determinismo linguistico), sostiene che la lingua determini il modo di pensare e che le categorie linguistiche limitano quelle cognitive. In altre parole, l’individuo sarebbe in grado di percepire la realtà solo attraverso le categorie ereditate dalla sua lingua. Questa forma estrema della teoria è ormai ampiamente screditata, e non gode più di alcun credito in ambito scientifico, essendo stata negata da numerosi esperimenti.

Gli studi indicano che, se proprio c’è un tipo di influenza, questa è comunque davvero marginale e non ostacola l’elaborazione di una visione diversa della realtà (altrimenti noi italiani avremmo tutti la stessa visione del mondo… e mi pare sia ovvio che non è così!). Senza contare la questione dell’uovo e della gallina: se la lingua influenza il pensiero… cosa influenza la lingua? Il pensiero stesso? Non avrebbe senso. Oppure la lingua si crea dal nulla e prende a influenzare il pensiero? Altrettanto assurdo.

Le differenze linguistiche che rispecchiano una visione particolare della realtà non limita la capacità di chiunque di apprendere distinzioni fatte da altre lingue: quando ero studente di linguistica a Edimburgo, vidi il video che mostrava un esperimento interessantissimo, ispirato ad uno studio condotto inizialmente su una popolazione centroamericana, gli Zuni, nel 1953 (Lenneberg e Roberts), ma stavolta condotto tra gli Himba della Namibia. Questa tribù parla una lingua in cui i colori sono suddivisi in categorie diverse dai nostri.
I termini per i colori in himba e le tonalità che descrivono. Notate come alcune tonalità di verde sono raggruppate assieme al blu e altre insieme al giallo.
Nell’esperimento c’erano due cerchi, uno composto da quadrati dello stesso colore verde e da uno azzurro, l’altro da quadrati dello stesso colore verde tranne uno di una tonalità leggermente diversa. Lo spettro della luce è un continuo, e dunque ogni linea che delimiti una porzione di esso attribuendole un termine specifico (come rosso, arancione, blu o azzurro) è arbitraria. Questo è stato ben dimostrato dall’esperimento:

Siccome noi europei distinguiamo tra blu e verde (non proprio tutti in verità! Il gaelico è un esempio interessante), un europeo indicava prontamente il quadrato azzurro come diverso. Per il parlante Himba, invece, le tonalità di azzurro e di verde scelte rientrano nella stessa categoria linguistica di colore (burou, immagino dal grafico) e dunque questo faceva fatica a individuare il quadrato azzurro come diverso.
Quanto ci mettete a capire quale quadrato è diverso a sinistra?
Con l’altro cerchio (quello a sinistra, valeva l’opposto). Uno dei tasselli è di una tonalità diversa, che per noi europei rientra comunque sotto la definizione di “verde”, mentre per un Himba è già dumbu (credo) rispetto alle altre che sono burou. Per questo, così come lo Himba ci aveva messo di più a isolare l’azzurro dal resto, l’europeo ci aveva messo di più a isolare il dumbu dal resto. Ciò è stato interpretato come prova del fatto che la lingua influisce sul nostro modo di vedere mondo. Il fatto è che questa conclusione non convince per un numero di motivi: siamo d’accordo che la luce visibile è uno spettro, e che quella sua suddivisione e i nomi che diamo alle sezioni create sono arbitrari, ma tutti gli esseri umani (salvo condizioni patologiche) sono in grado di percepire e distinguere le varie sfumature, anche senza avere termini che le indichino: se prendete una sezione della figura sopra, divisa in innumerevoli sfumature, sarete d’accordo (da europei), che anche se ne chiamereste una sezione “gialla” o “blu”, sareste comunque in grado di isolarne i quadratini e di identificarli come diversi, anche se per voi sono tutti “gialli” o “blu”!

La categorizzazione linguistica non implica che l’europeo non vede quando un colore è di una sfumatura diversa da un’altra, o che l’africano veda azzurro e verde come lo stesso colore! In arte (e anche nel mondo della tinteggiatura casalinga!) esiste una classificazione molto precisa dei colori, che un artista (o uno che vuole dipingersi casa) può usare per descrivere con estrema precisione una gamma di sfumature che va ben oltre al corredo linguistico standard di una lingua. Il fatto che varie culture abbiano separato lo spettro luminoso in punti diversi, è che gli spazi tra questi punti abbiano nomi che non corrispondono esattamente alle categorie di altre lingue, significa solo questo: che la loro lingua ha categorizzato diversamente i colori per l’uso quotidiano (per motivi magari pratici per cui nella cultura dell’africano è fondamentale distinguere un verde da un altro per — invento — distinguere una pianta ancora commestibile da una andata a male), ma ciò non implica che uno non possa vedere differenze laddove queste sono rilevanti. Io sono ignorante in fatto di colori, e per me marrone indica tante cose, mentre un artista saprà correttamente individuare un talpa, un seppia, un terra di Siena o un mogano. Questo non vuol dire che io non veda la differenza tra di loro.

Questo è esattamente ciò che è emerso in studi successivi: il contatto con altre lingue rende possibile lo scambio di categorie linguistiche senza che ciò abbia un reale impatto sulla percezione degli oggetti descritti. Non avere categorizzazioni linguistiche che circoscrivano un fenomeno reale, non significa non poter capire quel fenomeno o concettualizzarlo: in italiano distinguiamo tra blu e azzurro, in inglese e islandese no, ma inglesi e islandesi ci mettono poco a imparare che per noi italiani quello che per loro è un blu più chiaro ha un nome dedicato.

Resta poi sempre la domanda di come sia possibile che alcune persone di lingua europea di identifichino con categorie diverse dal maschile e dal femminile e pretendano di aggiungere a posteriori elementi grammaticali che le descrivano… se non è possibile concettualizzare altro dal maschile o dal femminile per un parlante di una lingua che prevede solo questi due generi grammaticali! Mi sembra dunque ovvio che la concettualizzazione della realtà preceda e trascenda le limitazioni (vere o percepite) della lingua. Se la lingua fosse davvero così impattante, non ci sarebbe mai stata alcuna innovazione nella storia umana, e saremmo fermi a caratterizzazioni e descrizioni linguistiche primitive. La lingua è un riflesso del pensiero, molto di più di quanto il pensiero non sia riflesso della lingua.

Sempre a Edimburgo, mi fu insegnato che uno studio del 2003 aveva evidenziato come parlanti tedesco e spagnolo descrivevano con aggettivi tipicamente mascolini termini che nella loro li già erano grammaticalmente maschili, e tipicamente femminini per i termini grammaticalmente femminili: il ponte è maschile in spagnolo, per cui gli spagnoli descrivevano il ponte come possente, imponente o cose simili, mentre i tedeschi, nella cui lingua ponte è femminile, dicevano che era elegante, snello o non so che altro. Be’, è saltato fuori che tale esperimento non è mai stato pubblicato in un articolo scientifico, e un tentativo di replicarlo fatto nel 2014 (e stavolta pubblicato da una prestigiosa casa editrice scientifica, DeGruyter) non ha prodotto gli stessi risultati, concludendo che la tesi di partenza fosse infondata. Lo studio conclude:

[Questa ricerca] suggerisce che i risultati dell’esperimento originale fossero o una conseguenza di qualche aspetto non documentato del processo sperimentale, o una variazione statistico. La questione se i parlanti attribuiscano interpretazioni di genere alle categorie linguistiche del genere grammaticale non può essere risolta in modo definitivo, poiché i risultati nella letteratura pubblicata variano ampiamente. Tuttavia, i nostri esperimenti mostrano che, se tale effetto esiste, non è abbastanza forte da poter essere misurato indirettamente mediante l’accostamento di aggettivi con sostantivi.

Ammettiamo però per questo discorso sia vero e comprovato, ovvero che la lingua influenzi veramente il pensiero, e che sia dunque possibile manipolare il pensiero altrui semplicemente facendo in modo che la gente parli in un certo modo (lasciamo pure stare il fatto che il politicamente corretto si è storicamente rivelato in larga misura fallimentare nello sradicare razzismo e altre discriminazioni negli U.S.A., e facciamo sempre finta che sia efficace): quanto è etico ciò? È lecito manipolare il pensiero altrui obbligando la gente a parlare in un certo modo? Se vogliamo che una politica linguistica venga attuata in un contesto dove l’obiettivo è una condivisibile lotta ad una discriminazione, e la politica attuale ci concede spazi per farlo, cosa facciamo quando gli equilibri di potere cambiano, e questo strumento linguistico viene usato invece per imporre un linguaggio discriminatorio per fomentare odio razziale o fobico? Se sdoganiamo un’idea che implica lo sfruttamento di uno strumento a fini politici, dobbiamo ricordare che la parte politica avversa potrà fare lo stesso.

Vale fare l’esempio della storia nordica, che all’inizio del ‘900 fu distorta e sfruttata per promuovere ideali razzisti di purezza della razza e superiorità dei popoli nordici presentando un mondo di indomiti guerrieri mascolini indomiti (cosa che non fu mai), mentre oggi (la stessa identica storia!) viene usata anche da gruppi di sinistra che la distorcono e la sfruttano presentando un mondo nordico di democrazia ed emancipazione femminile (cosa che non fu mai). In entrambi i casi, il risultato è che la storia vera di quel periodo è conosciuta solo agli storici (e a volte nemmeno a loro) mentre il pubblico è infarcito di idee false, e sceglie a quali far credito a seconda dei suoi ideali politici.

La narrazione isolazionista storica si è rivelata efficacissima nel veicolare idee politiche aberranti, e chiunque abbia studiato la storia dell’Otto- e Novecento lo sa bene, perché non dovremmo guardare con sospetto ad iniziative simili partite avanti nell’abito della lingua? Siamo così sicuri poi, avendo in mano uno strumento così potente, che esistano gruppi umani con i requisiti di etica per gestirlo? Chi li seleziona? Sarebbero in grado di limitarsi ad usarlo per fare del bene, o finirebbero per abusarne come chiunque prenda in mano del potere, convinti di agire per il bene, ma finendo per diventare mostri peggiori di quelli che avrebbero voluto fermare?

Discorso questo, secondo me, velleitario: non credo che la lingua funzioni bene come la storia, se l’intento è quello di condizionare il pensiero delle persone. Tutt’al più, si potrà aspirare ad ottenere una società in cui un gruppo di potere potrà asserire la sua autorità imponendo norme sull’espressione linguistica, dove schiere di persone si piegano alle norme imposte per evitare eventuali conseguenze, ma senza che ciò abbia veramente un impatto sulle loro opinioni.

Ripeto retoricamente la mia domanda: se i parlanti di una lingua che qualcuno vorrebbe descrivere come patriarcale e non inclusiva sono riusciti comunque a sviluppare concetti come la parità di genere e l’inclusività… cosa ci fa credere che una lingua forzatamente egualitaria e paritaria sui generi non possa lasciare spazio a pensieri discriminatori o sessisti?

Temo, a rischio di sembrare paternalistico, che l’idea di poter cancellare le cose brutte del mondo cancellandone l’espressione linguistica sia un può desiderio di persone che hanno forse perso le speranze nel progresso umano e sociale, e hanno spostato la loro attenzione verso un obiettivo che sembra loro più realistico e raggiungibile: la manipolazione della lingua. Pur di non abbandonare le speranze, queste persone si sono convinte che gli obiettivi auspicabili e condivisibili che desiderano siano non lontane utopie, ma qualcosa di vicino e a portata di mano: basta obbligare tutti a parlare in un certo modo attraverso legislazioni draconiane, accuse politiche, anatemi, mobbing su Internet a chi non accetta di recepire le nostre direttive… e il mondo diventerà un luogo migliore di pace, fratellanza (e dittatura del proprio pensiero — ma questo, tutti i dittatori, si illudono che non avvera: pensano che deportano lo scettro del potere una volta messo in ordine dove c’era caos, fatto giustizia dove mancava, e che restituiranno le libertà rimosse temporaneamente per il bene superiore che volevano raggiungere).

Io personalmente non vorrei mai essere nella condizione di poter prendere decisioni sulla vita altrui, perché pur sforzandomi nella mia vita di avere un impatto positivo sul mondo, so anche di essere capacissimo di fare del male, talvolta anche se animato da buone intenzioni. La luce e l’ombra, il bene e il male, sono racchiusi nel cuore di ogni essere umano, e il potere tende a tirare fuori l’ombra e il male. Per questo ho seri dubbi su iniziative che da subito si prefiggono di controllare aspetti della vita altrui, aspetti così importanti poi nella cultura occidentale fin dai tempi dei greci, come la libertà di pensiero e parola! Socrate è morto per la sua libertà di espressione, e ha deciso di piegarsi alle autorità ateniesi, rispettandole. Ecco, io preferirei non dover più vedere autorità che mettono a morte un Socrate come un ultimo degli scappati di casa per qualcosa che ha detto. Le parole feriscono, ma i limiti imposti per evitare il male delle parole sono un male ancora più grande.

Qui uno potrebbe dire: d’accordo! Non imponiamo le nostre scelte a nessuno, però io rivendico il mio diritto a modificare la mia lingua come voglio. Qui, però, bisogna fronteggiarsi con il fatto ineluttabile per cui una lingua deve per forza essere un codice basato su premesse condivise. Non potremmo comunicare se ognuno manipolasse la lingua a piacimento, per questo solitamente c’è poca tolleranza per tutto ciò che varia dal nostro modo di parlare e scrivere, anche quando abbiamo torto marcio e difendiamo norme assurde che non stanno né in cielo né in terra inventandoci le giustificazioni più assurde per difenderle, come avviene con l’assoluta insensatezza dell’uso di scrivere “sé stesso” senza accento, adducendo scuse che sanno solo di arrampicata sugli specchi.

Io, che sono un filologo abituato a lavorare su testi antichi dove ogni copista scriveva come gli pareva e con mille modi diversi di scrivere la stessa parola, ho ormai una tolleranza piuttosto elevata anche per le deviazioni dalla norma sanzionata dalle scuole italiane, deviazioni che, quando ero al liceo, mi avrebbero dato parecchio fastidio… ma quanta gente ha una preparazione tale per cui si possa pretendere che mostri la stessa flessibilità di un filologo? Non parliamo solo di pedanti e grammar nazi, ma anche di tutta la gente comune che ha assorbito un modello che è tràdito (cioè tramandato nel contesto di una tradizione) attraverso secoli in cui si è evoluto in modo organico.

Facciamo quindi un esempio assurdo: se è lecito proporre (o almeno utilizzare) versioni della lingua propria e idiosincratiche che vanno ben oltre i limiti tipici di un idioletto (ovvero di una versione della lingua tipica di una data persona), torna sempre la stessa domanda: dove e come tracciamo i limiti? Se una persona che ha a cuore la questione della rappresentazione dell’identità di genere non binaria ritiene sacrosanto di introdurre (anche solo nel proprio uso) un nuovo elemento morfologico come la schwa, perché una persona nostalgica del latino non dovrebbe reintrodurre il genere neutro dell’italiano antico e del latino? Mettiamo che a me, per esempio, piacesse di espandere l’uso del neutro, oggi rimasto solo in alcuni fossili come il grido/le grida, il dito/le dita, l’uovo/le uova e dire anche il castello/le castella (o addirittura il castello/LA castella, con LA come articolo neutro plurale! Del resto, anche in islandese l’articolo femminile singolare è identico al neutro plurale!), il peccato/le peccata, il documento/le documenta, oppure forme ancor più arcaiche come il corpo/le corpora, o altre analogiche come il fico/le ficora, il nome/le nomora. Posso farlo senza che alcuno possa dirmi nulla per non ledere la mia libertà?

Che dire poi dei comparativi? Le lingue germaniche hanno mantenuto quelli sintetici con la desinenza in -r (ING: cold > colder, ISL: kalt > kaldara), accanto a quelle analitiche (ING: more tyring, ISL meira þreytandi) mentre quelle romanze hanno perso i sintetici tranne che in fossili o prestiti dotti, come “sopra > superiore, oltre > ulteriore”, e poi “peggiore, migliore, posteriore, anteriore”… mettiamo che io voglia assecondare un mio gusto arcaicizzante e usare signiore (magari con la i etimologica per distinguerlo dal sostantivo “signore”) al posto di “più vecchio” > “questa casa è signore [più vecchia] di questa”; o magari introdurre forme anche non etimologiche e dire vecchiore, Belliore, Grandiore, Breviore…

Sarebbe un mio diritto farlo? Che reazione scatenerebbe? Avrei il diritto di usare mezzi diretti o indiretti, ricorrendo ad atteggiamenti passivo/aggressivi, derisori o denigratori nei confronti di chi agisce diversamente da me? Perché il rischio che ciò avvenga non è così basso come si vuole credere, anche per il fatto ineluttabile per cui la gente è poco avvezza alla variabilità linguistica, spesso la odia, la denigra e la sanziona. Persone che vorrebbero solo il diritto per se stesse di esprimersi in un certo modo, è da dimostrare che non finiranno con l’imporre il loro codice agli altri, se dovesse presentarsi l’occasione.

Nonostante alcune posizioni più moderate ed accomodanti nel dibattito pubblico, che è doveroso riconoscere ed elogiare, non è possibile non constatare anche la violenza con cui chi ha abbracciato certe istanze riformatrici si rivolge talvolta nei confronti chi invece le vede con sospetto o non le condivide. Qui nasce il sospetto che le vere motivazioni siano più che altro la prevaricazione e il potere, inteso come facoltà di controllare il prossimo in qualche modo. Una volta il potere era soprattutto economico, oppure religioso, oggi forse cerca di farsi strada anche sfruttando la lingua: “non posso dominare il prossimo economicamente (ad esempio riducendolo in schiavitù), ma posso assoggettarlo in altro modo, per esempio obbligandolo a parlare come voglio io.

Purtroppo, non è raro provare istintivamente imbarazzo e disagio, quando ci si trova di fronte a persone che hanno fatto scelte linguistiche radicali e che hanno basi politiche: esse non ci fanno lo stesso effetto degli accenti, dei dialetti, o di diversi significati che una stessa parola può assumere in Lombardia rispetto alla Sicilia. Questi ultimi non ci causano problemi di sorta e li accettiamo (entro certi limiti soggettivi), ma le modifiche su base ideologica sono anche un biglietto da visita politico, che rischia di lanciare questo messaggio: “hey, io parlo così per la penso così e sto da questa parte. Tu come parli, ché così vedo da che parte stai e decido se marchiarti come nemico?”. La cosa peggiore è che ciò rischia di avere un brutto effetto anche su persone che condividono le istanze ideologiche di chi vorrebbe intervenire sulla lingua, ma non condividono l’atto dell’intervento linguistico. Mi considerano un traditore, se non mi piego a questo uso che istintivamente non mi convince? Mi isoleranno e tacceranno dei peggiori crimini né più né meno di come fanno con chi di quei crimini si macchia davvero? Il volersi presentare con una lingua ideologicamente modificata non lascia scampo: è una dichiarazione politica che si pone naturalmente in opposizione a forme linguistiche differenti, e questa opposizione fa presto a traslarsi sul piano personale e politico. Per questo trovo non auspicabili forme radicali di intervento linguistico a tavolino come lo scevà o l’asterisco. Non perché non condivida le intenzione che stanno dietro a tali iniziative, ma perché intravedo più problemi di quelli che dovrebbero andare a risolvere, e che personalmente non credo possano risolvere.

Ma, allora, è sempre illecito giocare con la lingua e modificarla a proprio piacimento? Ecco: da un punto di vista letterario, credo che esperimenti di questo tipo siano assolutamente da tollerare, o addirittura da incoraggiare. Se uno volesse scrivere un romanzo o un testo creativo usando un terzo genere grammaticale, oppure una morfologia latineggiante, dovrebbe assolutamente farlo. Diverso il discorso per articoli giornalistici e saggi o pubblicazioni scientifiche, dove l’obiettivo di veicolare idee secondo un codice più largamente condiviso dovrebbe prevalere rispetto a quello della sperimentazione. Del resto, la scrittura creativa dovrebbe essere un’esplorazione anche della lingua, oltre che di concetti espressi attraverso di essa. Ma esercizi di creatività (più o meno basata su premesse ideologiche) non possono tradursi in istanze politiche e addirittura legislative volte a imporre una certa grammatica (intesa qui soprattutto come morfologia). Se, entro certi limiti, possiamo accettare e comprendere il valore di indicazioni linguistiche volte a conferire chiarezza e uniformità all’interno di ambiti specifici: burocrazia, giurisprudenza, ambiti tecnici, situazioni sociali particolari, dall’altro non possiamo nemmeno pretendere che tali indicazioni siano rispettate da tutti, sanzionando e screditando chi fa scelte differenti.

Roberto Luigi Pagani

N B Testo estratto da news letter dell’autore del 2 gennaio 2024 ( con evidenze in grassetto aggiunte da questa redazione per esigenze grafiche e di sottolineatura di concetti più significativi)

Sito dell’autore: https://unitalianoinislanda.com/

* PS. Per chiarimenti su significato e uso di schwa, vedi anche questi o altri siti su internet rintracciabili su Google :

https://www.illibraio.it/news/grammatica/schwa-1434340/

https://it.wikipedia.org/wiki/%C6%8F

https://www.treccani.it/enciclopedia/sceva_(Enciclopedia-dell%27Italiano)/

https://www.ilpost.it/2020/08/28/schwa/

Foto :
– Lo schema dei colori usato nell’esperimento citato dall’autore
– Lo schema delle vocali nell’alfabeto fonetico internazionale, in un grafico tratto dal sito Italiano inclusivo) ripreso in articolo sul Post