– Storia della scuola di Castello d’Argile. 1° stralcio-
Alla fine del 1700: si firma con una croce senza sapere quel che c’è scritto sopra.
Credo non si possa capire l’importanza del lungo e difficile percorso compiuto dalle nostre popolazioni rurali per ottenere un’istruzione pubblica accessibile a tutti, se non si conosce la situazione di partenza, registrata alla fine del secolo 1700; situazione di analfabetismo diffuso e generalizzato che si protraeva da sempre, dalla notte dei tempi, tra la gran massa di contadini, braccianti e artigiani precari.
In un paese piccolo come Castello d’Argile gli unici che sapevano leggere e scrivere, e spesso in un italiano abbastanza approssimativo, erano il parroco, il medico e il farmacista (quando c’era), uno scrivano, qualche bottegaio, o fattore, o piccolo possidente che poteva permettersi di mandare i propri figli maschi a studiare presso le scuole private istituite da ordini religiosi (Gesuiti, Scolopi) in città a Bologna o nelle vicine località di Pieve di Cento e Cento; oppure poteva pagare un maestro privato che dava lezione a domicilio.
Un episodio e documenti significativi di questa realtà per Castello d’Argile ci vengono da un carteggio del 1776, relativo alla controversia sorta per l’affittanza delle locali “Fosse”, una striscia di terra (dove per secoli, dal 1380 all’inizio del 1600, c’era stata l’acqua e poi acquitrino), circa 15 tornature in tutto, che circondava il centro abitato e che era di proprietà pubblica, cioè di tutta la comunità di Argile.
Su quest’unico bene pubblico di un paese poverissimo, i cui terreni e case erano quasi tutti di proprietà di possidenti bolognesi, centesi e pievesi, erano da tempo indirizzati gli appetiti di tanti: dei possidenti frontisti, che cercavano sempre di spostare di qualche metro in avanti i propri confini, degli abitanti del paese che se ne servivano per andare a raccogliere erbe, venchi per impagliare sedie o cesti, legna da ardere o foglie di gelso nella vegetazione di alberi e arbusti che cresceva spontanea e alla rinfusa nei periodi di abbandono. C’era poi chi vi impiantava abusivamente una porcilaia, chi una buca per escrementi, umani e animali.
Ma soprattutto c’era chi voleva appropriarsene del tutto facendosi assegnare dal Senato di Bologna, autorità competente insieme alla Legazione pontificia, per ogni atto pubblico, un contratto di “enfiteusi “ che era in sostanza un’affittanza perpetua a basso canone che portava poi ad una proprietà privata in cambio del pagamento di un modesto riscatto. Ci aveva provato il ricco possidente bolognese Giulio Cesare Venenti nel 1630, ma la comunità argilese e il Senato bolognese si erano opposti e le Fosse erano rimaste pubbliche; vennero quindi date in affitto novennale a un privato, con canone a beneficio del bilancio della comunità.
Ci riprovò nel 1758, riuscendoci inizialmente, il ricchissimo e potente senatore e marchese Francesco Sampieri, possidente anche in Argile di terreni, case, osteria e “frabbaria”, promettendo e attuando in cambio, grazie alla sua influenza in Senato, l‘istituzione di un mercato settimanale da tenersi il venerdì, facendo ottenere al parroco l’elevazione al grado di Arciprete e promuovendo la parrocchia di Argile al rango di Pieve.
Queste importanti concessioni non tacitarono però la popolazione argilese che si oppose ancora, ottenendo dal Senato la sospensione della delibera di assegnazione delle Fosse al Sampieri. La controversia si protrasse per anni e raggiunse il culmine nel 1776-77, quando si susseguirono ben 4 petizioni, promosse da opposti e concorrenti “partiti” guidati dal “massaro” ( rappresentante della comunità, incaricato della riscossione delle tasse, cambiato ogni 6 mesi), dall’affittuario Floriano Nanni e al parroco del tempo, don Cevenini, tutti desiderosi che le fosse restassero pubbliche, ma ognuno con mire proprie.
Il fatto significativo è che tutte quelle petizioni furono firmate con decine di croci, a parte i primi firmatari e pochi altri (11 su 100), e , nella terza petizione, comparivano molti degli stessi nomi che avevano firmato (con una croce) la prima e la seconda, che nel testo di supplica, sostenevano richieste diverse. A questi poveri capifamiglia “pentiti”, venne fatta sottoscrivere, ancora con una croce, anche la frase: “ confesso d’averla fatta (la firma-croce) sforzatamente nell’altra e qui farla volontariamente”, oppure: ”...senza sapere il perchè lo fece nell’altro e qui lo fece spontaneamente”; frasi scritte ovviamente da altri.
Quei documenti costituiscono una penosa testimonianza della umiliante condizione di ignoranza della popolazione contadina e bracciantile e del suo assoggettamento agli interessi dei pochi che invece sapevano leggere e scrivere. Quelle petizioni, pur confuse e contraddittorie, ottennero comunque l’attenzione del Senato, che, dopo varie e incerte notificazioni, rinunciò a concedere la enfiteusi perpetua per consentire alla comunità di Argile di mantenere la proprietà e dare in affitto le Fosse con asta pubblica al miglior offerente, con contratti novennali il cui importo sarebbe andato a sgravio delle tasse dovute dalla comunità.
Quel piccolo ma importante bene pubblico diede poi i maggiori benefici nel secolo 1900, anche per l’istruzione, perchè su un comparto delle ex Fosse ancora comunali furono costruite nel 1929 le scuole elementari di Argile tuttora esistenti. E, poco prima e in anni seguenti, le prime case popolari e le prime abitazioni private di artigiani e muratori dando avvio ad un primo modesto sviluppo edilizio ad un paese rimasto fermo per secoli a poche case entro la cintura antica delle ex fosse.(*)
Magda Barbieri
(*) Stralcio dal testo pubblicato sul volume “Tutti a scuola?” di AA.VV. a cura di Mirella D’Ascenzo, ed. Clueb. 2013, pag. 109-134